Quando l’aria è rovente e sembra quasi graffiare la pelle, quando i refoli di vento sembrano portare odori e sapori da terre lontane, quello è lo Scirocco. Vola dalla Siria, superando immense masse d’acqua cristalline, per risalire dagli scogli e avvolgere con la sua morsa infuocata tutto ciò che incontra. Le piante si piegano sofferenti, mentre braccia scure chiudono le imposte delle case, in attesa che il vento cambi. Le terre brulle diventano deserte e la luce, bianchissima, si riverbera tra le piazze mattonate dei paesi. Quando per la prima volta, tre estati fa, mi parlarono dello Scirocco mi stupii che un vento potesse avere tale importanza. Osservavo con viva curiosità le persone che, all’improvviso, si arrestavano in mezzo alla strada, mento alto e occhi socchiusi, intenti a parlare con lu sciroccu. Pesca, agricoltura e persino i fuochi d’artificio per la Santa Patrona della città, dipendono dal vento. Perché il Salento è fatto così, un luogo ricco di misteri e contraddizioni, una terra fatta di riti e superstizioni, in cui le leggende sono vive e pronte a raccontare la loro storia. Qui la natura si intreccia con l’uomo e si vive ancora secondo i ritmi di un tempo.

Il nostro viaggio affonda le radici nel passato e raccoglie testimonianze antiche come le pietre millenarie che costellano i campi. Siamo andati dove sorge il sole e le correnti si incontrano, ci siamo calati nelle viscere della terra e abbiamo cenato sotto le stelle.
E se anche voi doveste trovarvi da queste parti, ascoltate bene. Passando tra le piazze e i porti potreste sentire un vecchio pescatore dire “Muntagne chiare, sciroccu a mare”. Alzate gli occhi e scrutate l’orizzonte. Se si vedessero le montagne dalla costa dell’Albania, voltatevi e tornate indietro.

Sta arrivando lo Scirocco.
L’avventura è appena cominciata.

Accompagnateci in questo itinerario immaginario che attraversa il Salento da nord a sud. Vi condurremo laddove le correnti si incontrano e i confini si annullano, ci caleremo nelle viscere della terra inseguendo rituali arcaici, ascolteremo le pietre che parlano.

Lecce

Benvenuti a Syrbar stranieri, che Zeus vi protegga e renda piacevole la vostra permanenza. Prima di procedere oltre, lasciate che vi racconti la mia storia. Sono le parole di un vecchio stanco che ha visto la Storia passare di qua.

Mentre il vento fischia tagliente tra le statue di pietra, mi sembra quasi di riuscire a sentire queste parole. Quattro busti dallo sguardo serio mi fissano dalla cima di Porta Rudiae, l’ingresso a nord di Lecce, che reca ancora, nel nome, le vestigia del passato preromano. La nostra meta è il castello di Carlo V, abbiamo solo una giornata e quindi i tempi sono piuttosto stretti. A una bella storia, però, non si dice mai di no. Mentre i turisti iniziano a percorrere il corso principale, noi ci accostiamo all’arco e lasciamo che le statue ci accolgano in città.

«C’è stato un tempo in cui il mio popolo era tanto forte da mettere in fuga la flotta cretese e la terra tanto ricca da dare i frutti più dolci. Tra i boschi di lecci maestosi vagavano liberamente lupi dal manto lucido. Edificammo la nostra città in loro onore e la chiamammo Syrbar, Città della Lupa in messapico.
Ma attorno al nostro idillio, i belligeranti greci ordivano piani di conquista per amore di una donna. Troia fu distrutta e periglioso fu il viaggio di ritorno per gli achei incauti che tanto avevano agito contro il volere degli dei. Uno, in special modo, con la vana speranza di tornare a casa sano e salvo, pronunciò un voto grave: avrebbe immolato al dio la prima persona che avrebbe incontrato. Ma la Sorte è beffarda e volle che, giunto a Creta nella sua patria, il figlioletto gli corresse incontro, ricolmo di gioia dopo la lunga assenza. Ma un voto deve essere rispettato, così il pover’uomo, Idomeneo, sacrificò il suo stesso sangue. Quando poi giunse nel suo palazzo scoprì la moglie traditrice e l’amico usurpatore.
Senza famiglia e senza cittadinanza, navigò fino alle nostre coste, ribollendo rabbia e meditando vendetta. Mio figlio Dauno, qui alla mia sinistra, aveva intanto preso il trono. Con energia lo ricacciò indietro, mostrando la forza dei Messapi. Egli, indomito, tentò nuovamente, persuaso a non lasciarsi intimidire. Stavolta, però, ad attenderlo sulla costa vi era la mia splendida figlia, Euippa, divenuta regina dopo il fratello. Ne fu subito innamorato e il corteggiamento fu rapido. Dall’unione dei due,  che ora giacciono qui accanto a me, si creò la discendenza che molti soli ha visto sorgere e tramontare. Poi arrivarono i romani, seguiti dai normanni e così via. La città cambiò molte volte nome, fu
Lupiae, poi Licce, fino all’odierna Lecce.
Se pensate che questa storia sia interessante, date retta a me, ascoltate le pietre. Dicono che la Pietra Leccese sia famosa per le molte qualità nella lavorazione, ma in pochi ricordano che sappia anche parlare. La pietra serba memoria e tutti qui hanno qualcosa da raccontare.
Fate buon viaggio e, quando tornerete, passate a salutarmi.
Io, Malennio, Re dei Messapi, vi attenderò qui.»

Colpiti dalla storia leggendaria di Lecce, ci addentriamo tra le vie bianche. Il vento caldo ci accompagna e, senza rendercene conto, ci ritroviamo in Piazza Sant’Oronzo. Dalla colonna svetta la statua del Santo, primo vescovo e martire della città, che si dice fu discepolo di San Paolo stesso. Uno stemma mosaicato, quasi ignorato dai turisti distratti dalla colonna, attira la mia attenzione. E’ raffigurato un leccio con una lupa dal manto nero, su campo azzurro: lo stemma della città. Ripensando a Malennio e alla sua storia, trovo suggestivo che la scelta del nome sia legata a un animale non presente in alcun mito. Mi sarei aspettata una leggenda legata a un lupo e invece… E’ Eugenio a far luce sulla faccenda. Lui è l’esperto di leggende locali, lo facilita il sangue salentino.

«Conosci la storia di Licaone? Fece più o meno come Idomeneo, ma non fu altrettanto fortunato. Era un greco che fece voto a Zeus, sacrificando il proprio figlio. A quanto pare la divinità non gradì e, per punizione, lo maledì a una seconda natura ferina. L’uomo, spaventato, si rifugiò da Peucezio, suo figlio maggiore. Il giovane era venuto a fondare una colonia proprio in Puglia, in quella che era la terra di Bari. Pare che Licaone, la prima volta, si trasformò in lupo proprio qui. C’è un legame di vecchia data, quindi, tra i pugliesi e la licantropia! Tutto materiale per i Primi Re, non trovi? (Il Gioco di Ruolo di Matteo Sanfilippo, di cui io e Eugenio siamo anche autori di un’avventura, tra l’altro ndr).»

In effetti, dopo una rapida ricerca, ho trovato diverso materiale in merito. In questo articolo ci sono alcune leggende niente male!

Arrivati al Castello di Carlo V, nel centro esatto della città, rimaniamo affascinati dall’imponenza e dalla maestosità del luogo. La biglietteria è in una delle corti interne quindi, prima di trovarla, attraversiamo corti, portici e fossato, immersi nella storia del luogo. Siamo fortunati: è visitabile solo con tour che partono ogni ora, ma non sempre includono tutte le aree del castello. Noi siamo arrivati giusto in tempo per il tour completo. E’ qui che facciamo la conoscenza di Delia che, assieme a un’associazione locale, si occupa da relativamente poco tempo di aprire il castello ai turisti, in via sperimentale: tablet, video proiezioni con attori del calibro di Pannofino e, in alcune aree, reperti originali del dopoguerra, quando i sotterranei venivano utilizzati come ospedale militare (base perfetta per un larp di Sine Requie!).

Il castello, nonostante sia sotto la gestione di enti diversi, è visitabile nelle sue parti essenziali: torre, sotterranei, qualche sala, la cappella e le carceri (il mio posto preferito)! Stanno però lavorando all’apertura di una nuova porzione di gallerie, quindi chi lo visiterà in futuro avrà sicuramente un percorso più ampio da vedere!

Quando scendiamo nella penombra delle carceri lo spettacolo è suggestivo: ogni centimetro di parete è ricoperto da graffiti, fatti dai carcerati durante la prigionia. Sono originali, ben visibili, dal cinquecento in poi. Ci sono stemmi di prigionieri nobili, scene di natività, iscrizioni varie, segno indelebile di chi trascorse lunghi momenti di agonia in reclusione.

Vi sono molte torri con serpente, stemma di Otranto, e il paziente Alessandro, che ha sopportato ogni mia domanda, mi racconta volentieri la leggenda alla base del disegno (troverete la trascrizione alla voce Torre del Serpe, sotto Otranto). C’è una voce, insistente, che continua a chiamarmi. Una voce che merita di essere ascoltata, ma che non ha lasciato un segno visibile nella pietra. Perché è la pietra stessa.
«Pensate che lo stesso Gian Giacomo dell’Acaya, architetto militare di Carlo V, morì qui, nelle segrete che egli stesso aveva progettato. Fece da prestanome a un debitore insolvente e fu imprigionato. Una figura che è stata rivalutata solo di recente: pensate che il paese vicino Lecce, Acaya, prende il nome dalla sua famiglia e non il contrario. Fu proprio lui a progettare e riedificare la città. Peccato che non sia stato possibile attribuirgli, per ora, neanche un’iscrizione. Gli abbiamo dedicato però un video di presentazione, che racconti la sua storia, così da rendergli giustizia!» spiega Alessandro.

Uscendo, mentre racconto di tutti i progetti di gioco che farei nel castello, vediamo Delia che ci osserva con la consapevolezza di chi conosce il gioco di ruolo. In effetti, in tutto il Salento, abbiamo avuto difficoltà a trovare negozi specializzati o giocatori in generale. E’ con grande gioia che scopriamo che il marito sia un giocatore! Abbiamo passato un po’ di tempo assieme a scambiarci consigli su cosa giocare e quali negozi visitare, su come sia la comunità ludica leccese e così via! Su loro consiglio, quindi, andiamo a trovare Yuri e l’Antro del Fumetto, vicinissimo al Castello. Passando incrociamo anche Mondi Sommersi, fumetteria ben fornita, in cui è possibile anche giocare da tavolo. Non hanno molte cose legate al mondo ludico, ma consigliamo di passare a trovarli, anche solo per una chiacchierata!

Ormai la giornata sta volgendo al termine e, prima di dover tornare a casa, ci concediamo un’ultima visita, sulla strada del ritorno. Si tratta di un Museo insospettabile, sito all’interno di un’abitazione privata. E’ il Museo Faggiano che, dentro una dimora leccese, racchiude più di duemila anni di storia stratificati. La tomba di un bambino messapico, poi i templari, le clarisse nel seicento fino ad abitazione privata. Il signor Luciano e i figli, che gestiscono il museo privato, sono ben lieti di raccontarci la loro storia e ci riportano indietro ai primi anni duemila quando, per risolvere problemi di umidità e credendo ci fosse bisogno di riparare le fognature, scoprirono i primi reperti archeologici. Ci sono voluti altri otto anni prima di poter aprire e certo non si aspettavano una tale stratificazione storica. Gli scavi, curati personalmente dalla famiglia sotto la supervisione della soprintendenza, hanno portato alla luce ambienti su vari livelli, tutti visitabili. Pare che nuovi scavi inizieranno a fine anno, speriamo quindi di poter vedere presto le novità! Avere la possibilità di fare la visita con i proprietari è davvero unico e, se alla fine della visita vorrete andare a bere qualcosa, vi consigliamo il vicino bar a Porta San Biagio, sempre di proprietà della famiglia Faggiano.

La nostra gita a Lecce è conclusa, il sole sta iniziando a calare. Torniamo verso Porta Rudiae con il sorriso, carichi di nuove idee. Passando, rivolgiamo un saluto a Malennio, consapevoli che la sua storia non verrà dimenticata.

Amo il Salento perché qui siamo in Oriente e in Occidente, dove percepiamo Roma e Atene, dove vediamo le montagne dell’Epiro e il Barocco Leccese. Perché qui la fine del mondo è l’inizio di un altro.

Edoardo Winspeare, rappresentante del cinema salentino.

Malennio ha detto bene, dobbiamo seguire le pietre. Un graffito del cinquecento ci ha condotti fino a Otranto e, adesso, sulle tracce di antiche leggende, proseguiamo, sempre più a sud.

Otranto

La voce del galeotto che, durante le notti di luna piena, raccontava la sua storia alle pareti della cella, raccontava la leggenda della sua terra natìa. E, se la memoria non mi inganna, iniziava più o meno così:

C’era una notte colma di luci ma, tra i mille scintillii, uno brillava su tutti. Era in alto, sulla cima di una torre a picco sul mare e, sotto di esso, un serpente dormiva il suo sonno millenario. Una notte però, quando il mare era agitato e rombava tonante, arrivarono gli uomini con le loro spelonche di legno a fare una gran confusione. Il serpente, ridestatosi a causa delle urla degli uomini che giungevano dal mare, pronti alla battaglia, andò su tutte le furie. Chi osava svegliarlo? Erano i turchi! Affamato dopo il lungo letargo, l’enorme serpe si attorcigliò lungo la torre e bevve tutto l’olio della lampada. La torre si spense all’improvviso e non ci furono fari a proteggere la traversata dei turchi. Tutte le navi, una a una, si schiantarono sugli scogli. La serpe, piena dell’olio, rovinò dalla torre che si sgretolava sotto il suo peso e cadde nella sua tana, sigillata per sempre.

Da allora gli abitanti di Otranto, in suo onore, l’hanno affissa nello stemma della città. A imperitura memoria della loro salvezza.

Otranto è famosa per le sue vie colorate, la cattedrale e il castello, protagonista anche di romanzi. Pochi però sanno che anche la campagna e i suoi dintorni sono ricchi di località suggestive. La Torre del Serpe, protagonista della leggenda, è una delle molte torri d’avvistamento che costellano la costa salentina. Particolare per via della sua forma, è meravigliosa da vedere al tramonto. Immersa nella natura, si raggiunge facilmente dopo una passeggiata immersi nella natura. Non è conosciuta dai turisti e, per questo, potreste avere la fortuna di visitarla completamente da soli! Godetevi un momento di relax e contemplate l’orizzonte. Lo sentite? Dicono che, quando si calma il vento, sia possibile sentire il respiro della serpe che dorme!

Allontanandoci di qualche chilometro, invece, ci ritroviamo all’improvviso su Marte! La cava di bauxite, particolarissima per via del colore rosso, sembra veramente un paesaggio alieno. Si passeggia tra crepacci, dune e avvallamenti attorno a un laghetto che, grazie alla roccia, assume colori tra l’azzurro e il verde. Vi consigliamo di andarci di mattina perché, grazia alla luce a picco sul lago, si nota un maggiore contrasto di colori! La bauxite, con cui si produce l’alluminio, fu scoperta in questa zona da uno studente del liceo durante gli anni ‘40. Attiva fino agli anni ’60, la cava fu poi progressivamente abbandonata perché poco produttiva. Abbandonata nel ’76 è oggi accessibile liberamente. I cartelli di divieto rimasti all’ingresso, però, ricordano molto un mix tra Mad Max e le ambientazioni alla Apocalypse World.

Si giunge infine al Faro di Punta Palascìa, il punto più a est d’Italia, il primo luogo da cui si vede sorgere il sole! E’ stato riaperto al pubblico solo da una ventina di giorni grazie ad Apulia Stories, un’associazione locale che gestisce diversi tipi di experience in tutta la zona: dalla possibilità di lavorare la pietra leccese in una cava alla visita con i visori 3d in un frantoio seicentesco. La  visita al faro è emozionante (sempre che si riesca a sopravvivere ai 150 gradini) e permette di affacciarsi nel punto in cui si incontrano le correnti del Mare Adriatico e Mar Jonio. Vengono organizzate anche tante attività come la possibilità di vedere le stelle dal faro con i telescopi o assistere all’alba e fare colazione! Noi siamo riusciti a fare solo la visita guidata, ma ci siamo ripromessi di tornare l’anno prossimo!

Castro

Se il mediterraneo è la culla della civiltà, Castro ne è senza dubbio il suo crocevia. Già abitato nella preistoria, secondo il poeta Virgilio proprio a questo promontorio sarebbe approdato l’eroe Enea appena giunto in Italia, cosa di cui la città è orgogliosa, tanto da intitolare il proprio porto al guerriero troiano. Dopo essere passata sotto l’ala di Bisanzio, Castrum Minervae conobbe la colonizzazione di numerose popolazioni barbariche, per poi divenire sede vescovile per volere di papa Leone II. E ancora passarono i Normanni, poi gli Arabi e gli Svevi, fino all’imposizione del dominio di Taranto e dei sovrani d’Aragona.

Arroccata su un promontorio, dalla scogliera fin su all’ombra delle mura della fortezza, Castro è una città da sfogliare andando a ritroso nel tempo, senza però mancare di abbandonarsi ai suoi intrattenimenti, da alcuni anni sempre più vicini alle esigenze dei giocatori in vacanza.

Chi son costoro, che per le irte rocce vengono al mio sepolcro d’acqua? Se a pietà vi muove il cuor, fermatevi a udir la storia di questo povero sventurato, dalla cui punizione nacquero le tremule colonne di questo mausoleo terracqueo.

Quando le onde gorgogliano sommesse sotto gli scogli erosi, è possibile udire il lamento della marea. Una chiostra di lunghe stalattiti si allunga verso di noi, accogliendoci all’ingresso della Grotta Zinzulusa. Siamo diretti verso il duomo, ovvero il cuore carsico di questo museo naturale dove la storia umana e animale ha lasciato testimonianza viva. Mentre la guida ci accompagna in corridoi variopinti e dalle forme colanti, provvisti di nomi singolari come cripta e adito, procediamo nei pressi di una pozza sorgiva di acqua purissima. La voce dell’infelice prigioniero ci accompagna lungo il tragitto.

Lo nome mio è ormai polvere nel tempo, ma il volgo di me ha memoria ancora come il Barone di Castro. Fui uno degli ultimi feudatari, come i gentili Rossi e i De Rosa, e contavo alcune terre in Vignacastrisi, Ortelle e Diso, tant’è che rispettato ero anche nella fulgida Santa Cesarea. Tenevo una bella moglie e una figlia, ma cieco fui di un’altra donna: la dea di denari. Ori e zecchini, spezie e gemme, io ne avea tanti e ancor di più ne volea. L’avarizia indurì l’animo mio, tanto da farmi dire: suvvia, perché sperperar in libri e sete, quando viver si può di sudiciume e stracci?

La Baronessa, per durezza mia, morì di inedia, e la figlia mia crebbe cupa e tetra. Avaro di amore fui, la di lei fanciullezza rubai. Ma il volgo saggio insegna: Ci ole lu male dell’autri, lu sou è vicinu. Un giorno di scirocco una fata rispose alle preghiere di mia figlia: ella, a pietà mossa dagli stracci indossati dal sangue del mio sangue, le diede vesti degne della corte di Aragona, facendo precipitare quei vecchi Zinzuli laceri in fondo a questa grotta. Qui, di pietra diventarono, adornando le fauci infernali di questo ingresso. Quanto a me, per i mali miei, scagliato venni in questo suolo calcareo. Dalla mia prigione zampillarono acque gelide e infernali, coprendo interamente il mio sepolcro, ove oggi vivono creature bianche, rese cieche alla vista della mia empietà. Ecco, ora conoscete la mia storia e di come, per mia vergogna, essa porti il nome di Zinzulusa.

Ci allontaniamo dalla storia dello sventurato Barone, mentre il corridoio si fa tanto stretto da costringerci a passare in fila indiana. Bisogna fare attenzione poiché la grotta, come un’enorme organismo, è veramente viva: toccare una goccia d’acqua, anche dalla punta della più piccola delle stalattiti, vuol dire fermare per lungo tempo un processo che si ripete, indisturbato, dalla notte dei tempi. Seguendo il camminamento naturale, tenendoci a debita distanza dallo strapiombo allagato di cui ci ha raccontato il Barone, arriviamo sotto l’ampia volta della grotta conosciuta come Cattedrale. Fino a pochi anni fa, ci spiega Valentina, la nostra guida, i pipistrelli vivevano nelle parti più alte della guglia, fino a che la presenza dell’uomo non è diventata insostenibile per creature così timide. Eppure, solo pochi anni non bastano a cancellare la loro millenaria presenza: sul fondo della Cattedrale, nel punto più profondo, vi è ancora un’enorme strato di guano secco, solidificatosi a ogni passaggio di secoli. La grotta proseguirebbe ancora nelle viscere della scogliera, per un lungo tratto sommerso, ma solo ai biologi è concesso proseguire le esplorazioni sottomarine: l’habitat che si è formato, incontaminato dalla presenza dell’uomo, è l’unico in cui viva e sopravviva un’antica specie di gamberetti, resi albini e ciechi per la totale assenza di luce.

L’esplorazione della grotta prosegue però nel museo del Castello Aragonese di Castro, dove sono custoditi numerosi reperti rinvenuti: stiamo parlando di lame, cocci, manufatti in osso, selce e ossidiana, dell’epoca neolitica, paleolitica e Romana. Mentre ci dirigiamo all’uscita indico contenta un cartello: pare che in una lettera inviata nel 1793 dal vescovo di Castro a re Ferdinando IV si ipotizzasse che proprio lì fosse vi fosse l’antico tempio di Minerva costruito da Idomeneo! Lo stesso incontrato a Lecce. La voce continua a guidarci e, felici, ci dirigiamo a Castro.

Castro è una città in continuo mutamento, la cui storia è spesso oggetto di discussione. Emanuele, giovane archeologo e guida presso il castello aragonese, fa trasparire in ogni parola l’amore e la passione per la sua città. Seguendo le nostre domande, racconta aneddoti e curiosità sugli scavi che, a fase alterne, interessano le zone della città. «Un punto qualsiasi vi dico! Scavate per piantare un pomodoro e vi ritrovate un mulino del III secolo, alla nonna del mio collega è andata proprio così!». L’entusiasmo è così coinvolgente che, spostandoci tra le sale del museo ospitato nel Castello aragonese, saltiamo tra le epoche senza neanche accorgercene.

Particolarissimi i reperti più antichi, dai cui frammenti è possibile ricostruire la preistoria dei primi avamposti umani. Degni di nota, anche solo per la loro particolare funzione rituale-funeraria, sono i vasellami del neo-eneolitico, rinvenuti alla Zinzulusa. E mentre Eugenio inizia a fantasticare sulle motivazioni che possono aver portato dei popoli a deporre vasi nelle profondità di una grotta che, all’epoca, era semisommersa, io vengo attratta da una statua di Atena. Pare sia quella la riprova del tempio di Idomeneo, di cui il comune sta ancora cercando le tracce.

Anche oggi è quasi il tramonto e la visita è finita. Anche quest’anno il nostro giro in Salento è terminato. Sentiamo che un pezzo di questa terra tornerà a casa con noi, in attesa del prossimo viaggio.

Quando lasciamo Castro, mi fermo un attimo a osservare il cielo, socchiudo gli occhi e alzo il mento.

E’ scirocco.